Il fondatore del Lord Byron College ha dato
una grande impulso all’apertura mentale di tanti baresi. Creando e facendo crescere una scuola sicuramente originale che ha puntato sul “Learning by doing”.
Non saranno belli ed iconici come Palazzo Mincuzzi, ma di certo le due sedi del Lord Byron College su via Sparano si fanno notare e sono ormai parte integrante della città di Bari. E rispecchiano fedelmente l’eclettica personalità del suo fondatore, Andrew Paolillo, un italo-canadese figlio di genitori italiani emigrati in Canada, che ha iniziato gli studi in Canada per finirli a Perugia.
L’insegnamento delle Lingue era già nel suo destino fin da giovane: «Nel 72-73, con alcuni colleghi di studi, abbiamo preso parte ad un percorso sperimentale di apprendimento delle lingue pensato per gli italiani che arrivavano in Canada senza conoscere la lingua inglese. Spesso si trattava di laureati», ma si sa, all’epoca la conoscenza dell’inglese non rientrava tra le priorità delle famiglie italiane.
La prima sede del Lord Byron nacque a Trani. La scelta del nome del poeta, politico e martire della libertà deriva anch’essa dagli studi fatti: «La mia tesi di laurea era dedicata a lui e proprio quest’anno
cade il bicentenario della sua morte. Fu un grande poeta. Un uomo bizzarro, strano, molto intraprendente, un genio spettacolare che conosceva benissimo molte lingue, tra cui l’italiano che amava, essendo stato per sette anni in Italia».
A settembre del 2023 il college ha festeggiato i suoi primi 50 anni, un traguardo importante. «Il sindaco Antonio Decaro ci ha detto che abbiamo contribuito a rendere la città di Bari internazionale», racconta Paolillo con grande orgoglio, sottolineando che la carta vincente della sua scuola- azienda sia stata quella di impostare fin dai primi anni la didattica su una metodologia innovativa, quella del “Learning by doing”, imparare facendo cose, cioè apprendere dal vivo, creando situazioni, simulando la vita reale.
«All’interno della struttura facevamo riunioni sociali, sketch in inglese. E dopo le lezioni andavamo al pub che avevamo creato all’interno del college e tornavamo a casa alle 2 di notte. Era l 1974-75, l’idea del pub fu un successone, anche se ci faceva tirar tardi ogni sera. Nei primi anni 90 abbiamo avuto bisogno di altre aule e il locale fu soppresso». Non è finita però la voglia di essere una scuola diversa: «All’interno del college oggi abbiamo anche un centro di doppiaggio. Lo considero un complemento di rifinitura all’apprendimento della lingua. Ai ragazzi e alle ragazze chiediamo di riproporre voce e accento degli attori, rispettando i tempi e la pronuncia. È un modo per divertirsi. E questa è un’altra cosa a cui abbiamo sempre tenuto: aggiungere il lato ludico, quello del divertimento, alla formazione pura. Insomma: non siamo la classica scuola. Non lo siamo mai stati».
Oggi il Lord Byron College conta sull’impegno di 50 insegnanti e 7 amministrativi. E vi si insegnano tutte le lingue, anche quelle asiatiche.
Tutto ciò è frutto di una crescita costante. Un po’ come quella della città che lo ospita. «Bari non era così nel 1973, era completamente diversa, ancorata sulle tradizioni, non aperta al mondo. Era una città un po’ morta, non vivace e attraente come oggi. Nel 1987-88 fummo i primi a portare il sindaco di Londra nella città vecchia, e rimase di stucco già all’epoca, colpito dal folklore. Tra i progetti in cantiere c’è proprio quello di far diventare la città di Bari ancora più internazionale, anche attraverso gli scambi culturali con la città di Londra e le due scuole londinesi con le quali da anni collaboriamo. E poi vogliamo ampliare i soggiorni studio dei nostri studenti e assistere le scuole statali. Vogliamo una Bari sempre più internazionale e speriamo di aprire la mentalità anche dell’hinterland, dei comuni più interni della provincia».
Nel frattempo la concorrenza è cresciuta, ed è anche anche agguerrita. Ma Paolillo non si scompone: «Ben vengano le altre scuole. Alcune sono state incoraggiate dal nostro esempio: abbiamo fatto capire che l’inglese non era per l’elite ma era necessario per tutti, giovani e meno giovani. Abbiamo seminato bene».
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